Quando parliamo di servizio sanitario e di cure al malato lo scenario si apre
prevalentemente sull’accesso ai servizi di diagnostica, sulla prevenzione,
sull’opportunità di trattamento e sui tempi di erogazione.
Si parla meno di outcome del paziente e ancor meno di fine vita. Tutelare l’esistenza
residua e la dignità della morte rimane ancora un concetto poco affrontato o
affrontato ai margini, analizzato e sostenuto in maniera differente sul territorio
nazionale, riversato troppo dolorosamente sulla famiglia quando la persona malata ha
la fortuna di averne una.
Al contrario il fine vita è un tema che vede coinvolti molti medici e operatori sanitari
impegnati nelle strutture ospedaliere pubbliche e l’incontro al malato morente può
avvenire nei più diversi ambiti della nostra attività, non riguardando solo gli hospice,
la cui distribuzione disomogenea sul territorio nazionale assicura l’accesso ad un
numero troppo esiguo di persone, ma riguarda anche i reparti di degenza come le
Medicine interne, le Geriatrie, le Terapie Intensive, talora anche il PS.
Infatti in un paese in cui il concetto di salute è politicamente affrontato in maniera
estremamente confusa e scompaginata, caratterizzato da un lavoro immane ma
disarmonico, per la mancanza di un unico comune denominatore tra il territorio e
l’ospedale, tra i medici di famiglia e gli specialisti, il PS diviene non di rado l’ultima
disponibile porta d’accesso di un malato affetto da patologia cronica al termine del
suo percorso. In questo caso dobbiamo essere tutti preparati ad affrontare il più
corretto trattamento che allevi le sofferenze, senza accanimenti terapeutici e includa
al meglio quel delicato momento della relazione al paziente e all’intero nucleo
familiare.
L’Anestesista Rianimatore è spesso coinvolto in questa fase dell’assistenza per stabilire
se un quadro clinico richieda procedure e manovre invasive oppure se, ritenendo le
stesse sproporzionate rispetto alla prognosi, vadano sostituite da un approccio
palliativo. In quest’ultimo caso è giusto far comprendere ai familiari o al malato,
quando possibile, che l’approccio palliativo non è sospensione delle cure e abbandono
della persona, ma è terapia per alleviare le sofferenze là dove non vi è più margine per
una terapia che curi la malattia. L’obiettivo in questo caso sarà quello di dare dignità
alla vita residua e alla morte ed è obiettivo che deve prevalere su quello di prolungare
una sopravvivenza troppo dolorosa. Si aprono, a questo proposito alcune questioni
particolari che non vanno mai lasciate al caso: evitare logiche difensivistiche,
condividere le scelte in team multi-disciplinari che allevi il peso psicologico di un solo
professionista e renda più completa l’appropriatezza clinica, rispettare la volontà del
paziente secondo quanto sancito dalle norme in materia di consenso informato e
disposizioni anticipate di trattamento secondo l’autodeterminazione della persona
malata.
La legge 219/2017 – all’art.1 infatti fonda i propri principi sull’appropriatezza clinica e
sulla proporzionalità delle cure; significa che ciò che è appropriato clinicamente,
perché vi è la ragionevole probabilità che quel determinato trattamento in quella
determinata persona possa modificare positivamente la prognosi e prospettare un
recupero, può non risultare accettabile dal paziente ovvero può non essere
proporzionato rispetto alla sua personale valutazione della qualità del possibile
recupero e del rapporto tra benefici e oneri psicofisici che da quel trattamento
possono derivare. Ciò che appropriatamente e quindi legittimamente può essere
proposto dal medico può non essere proporzionato per il paziente e quindi può non
essere accettato (autodeterminazione). Anche qui possono aprirsi scenari diversi,
come lo stato di incapacità mentale, l’assenza di disposizioni anticipate di trattamento,
lo stato di emergenza-urgenza nel quale si opera. Nei casi in cui la valutazione
dell’appropriatezza non può essere pesata in armonia con quella della proporzionalità
delle cure, deve prevalere l’appropriatezza clinica, secondo scienza e coscienza,
rinviando la seconda a un momento successivo più maturo per operarne una scelta
adeguata.
L’appropriatezza del pensiero clinico rispetto alla persona sofferente non è mai un
processo semplice, non è abbandono né può definirsi eutanasia, è piuttosto
espressione di cura appropriata alla condizione, attenta ai bisogni contingenti, ispirata
ai principi dell’etica clinica ovvero al principio di “beneficialità” che guida il medico nel
prioritario interesse del paziente. L’elemento centrale della questione rimane quindi
la tutela della dignità della persona malata, per cui limitare i trattamenti intensivi, che
abbiano il solo scopo di prolungare la fase di passaggio alla morte, non è solo lecito
ma costituisce un dovere deontologico e giuridico (art. 2 Legge 219/2017) e diviene
presa in carico globale del paziente. Questo approccio va dal controllo farmacologico
e assistenziale del dolore, al supporto psicologico e spirituale della famiglia fino alla
gestione dell’eventuale lutto.
Le linee Guida SIAARTI e le Raccomandazioni per l’approccio alla persona morente
(Update 2018), che ricordiamo rappresentano punto di riferimento imprescindibile
alle quali la legge n.24/2017 richiama l’attenzione nell’attribuire ruoli di responsabilità,
individuano, tra l’altro, veri e propri indicatori di qualità del fine vita.
Li riportiamo qui nei seguenti punti:
- processi decisionali condivisi con il paziente e la sua famiglia nel pieno rispetto
delle loro volontà; - comunicazione tra l’equipe, la persona ricoverata e la sua famiglia garantendo
tempi e luoghi idonei da dedicare alla relazione di cura; - continuità assistenziale ricercata attraverso confronti strutturati nell’ambito
dello staff; - supporto emozionale e spirituale garantito alla persona ricoverata e alla sua
famiglia con l’obiettivo di favorire la loro capacita di affrontare la situazione; - controllo di tutti i sintomi in grado di arrecare sofferenza fisica o psicologica;
- supporto emozionale e spirituale garantito a tutti gli operatori sanitari con
l’obiettivo di prevenirne il burnout ed il disagio etico; - processi organizzativi finalizzati alla formazione continua dei professionisti
sanitari in cure palliative e assistenza al fine vita (comprese non-technical skills
e percorsi di introspezione, elaborazione del lutto).
Il documento si sofferma sull’importanza della comunicazione ricordandoci che ciò
che qualifica il professionista è la capacità di relazione. Una comunicazione è buona
se caratterizzata da questi requisiti:
- correttezza e comprensibilità;
- coerenza e omogeneità;
- gradualità nel processo informativo;
- direzione biunivoca che renda i familiari “microfono e testimoni della persona
stessa rispetto ai suoi pensieri, alle sue aspettative, alla sua biografia e alle sue
volontà”; - empatica ovvero che ottimizzi la compliance, la fiducia e il senso di affidamento.
- contestualizzata negli spazi e nel tempo adeguato e necessario.
Perché comunicare non vuol dire solo informare ma rappresenta lo strumento per
interagire e creare una relazione di fiducia, base per la riduzione dei conflitti, faro sulla
dimensione umana del malato, cardine di un approccio etico alla malattia che genera
in ogni essere umano una componente affettiva ed emotiva fatta di dolore, speranza,
incredulità. Solo così il medico sperimenta con il paziente e la sua famiglia una
relazione che diventa cura oltre la guarigione e oltre ai bisogni del ricovero, una
relazione che intercetta la necessita più grande, ovvero “la certezza che tutto è stato
fatto”. In questo scenario qual è oggi il prezzo, in termini psicofisici, che medici e
operatori sanitari pagano per mantenere il diritto ad un approccio eticamente giusto
ma messo costantemente a repentaglio da logiche aziendalistiche? Gli Ospedali
rimodulati in Aziende hanno target organizzativi che attribuiscono ore e numeri alle
prestazioni, privano delle risorse umane adeguate e decurtano ai professionisti quel
tempo prezioso che “è tempo di cura”, come sancito dall’art. 1 della L. 219/17 e
dall’art. 20 del Codice di Deontologia Medica. Tali Aziende rappresentano un luogo
dove rischia costantemente di maturare la controversia tra la necessità di cura, nel
significato più completo della sua definizione, e la potenzialità di “strumenti” per
realizzarla.
Esiste poi un problema di distribuzione delle risorse notevolmente disomogenea per
regioni nel nostro paese, compromettendo quel principio di equità di accesso alle cure
palliative. Il 25 maggio 2025 in occasione della Giornata Nazionale del Sollievo, la
Federazione Cure Palliative e la Società Italiana di Cure Palliative hanno lanciato un
vero e proprio allarme: a fronte della legge 197/2022 che fissa l’obiettivo di garantire
entro il 2028 l’accesso alle cure palliative al 90 % dei malati su tutto il territorio
nazionale, oggi solo il 33% dei pazienti riceve cure palliative con un divario importante
tra nord e sud. I dati ufficiali del Ministero ci informano che il Trentino assicura
assistenza a oltre il 70% delle persone che ne hanno bisogno, il Veneto al 55%, la
Lombardia e l’Emilia Romagna riescono a dare una copertura a 40% della popolazione
che la necessita, la Sicilia al 23%, la Calabria al Campania e la Sardegna sotto il 10%. Il
diritto al sollievo dalle sofferenze è dunque ancora negato e non garantito
omogeneamente nel nostro paese e si rimane lontani dall’obiettivo fissato.
Ancor più lontana è l’applicazione del suicidio medicalmente assistito, regolamentato
in Italia per la prima volta dalla regione Toscana che approva a febbraio di quest’anno
la legge regionale n. 16/2025. Tale legge, recependo le sentenze n. 242/2019 e
135/2024 della Corte Costituzionale muove l’interesse dalla necessità di coordinare
l’applicazione delle sentenze con un dettato legislativo regionale che garantisca la
corretta organizzazione e l’omogeneità applicativa. Sul principio di autodeterminazione del paziente la Corte Costituzionale ha inteso la sospensione delle cure salvavita un diritto inviolabile quando siano soddisfatti i seguenti requisiti:
1) capacità di intendere e di volere della persona malata che sceglie
liberamente e consapevolmente
2) la patologia è irreversibile
3) la patologia provoca gravi sofferenze fisiche e psichiche
4) il paziente sopravvive solo grazie a trattamenti per il sostegno vitale.
Cure Palliative e suicidio medicalmente assistito rappresentano due facce della stessa
medaglia nella cura del paziente affetto da patologia grave, ma nel primo caso si
intendono le cure rivolte ad alleviare le sofferenze delle persone giunte, a causa della
loro patologia, alla fine della vita, nel secondo caso si intende una procedura richiesta
dal paziente che, affetto da una grave condizione patologica, non sta per morire ma
versa in una condizione giudicata per se stessi non più accettabile e sostenibile.
Parliamo di due condizioni diverse, sia dal punto di vista clinico sia dal punto di vista
dell’aspettativa di vita, sia dal punto di vista organizzativo gestionale, sia dal punto di
vista etico, ma accomunate dall’unico comune denominatore che è il dolore e insieme
ad esso la solitudine e la sofferenza. Tanto ancora c’è da fare perché temi così sensibili
si traducano in una reale efficiente distribuzione dei servizi dedicati su tutto il
territorio nazionale, perché nessuno si senta indietro rispetto al diritto alla cura ma
anche rispetto al diritto ad una “dignitosa morte”. Occorre uno sforzo per approfondire
il problema perché se “la scienza ci illumina, solo la comprensione della sofferenza può
ricordarci la nostra umanità” (Prof. M. Martelloni). C’è urgente bisogno di dialogo
perché attraverso un approccio etico, professionale e politico si trovino, all’interno del
Sistema Sanitario Nazionale, le migliori soluzioni organizzative necessarie a preparare
i medici e gli operatori sanitari e a garantire uniformemente su tutto il paese la tutela
della vita in tutte le sue sfumature.
A cura della Dott.ssa Simona Bonaccorso
Anestesista Rianimatrice presso l’Azienda Ospedaliera per l’Emergenza Cannizzaro Catania
Componente Esecutivo Nazionale Anaao Assomed